Athanor - Augusto Ponzio

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Athanor



ATHANOR SEMIOTICA, FILOSOFIA, ARTE, LETTERATURA
SERIE ANNUALE DIRETTA DA AUGUSTO PONZIO



PRESENTAZIONE (di Cosimo Caputo)

  È del 1990 il primo numero della serie monografica annuale Athanor, promossa dall’Istituto di Filosofia del Linguaggio (ora Dipartimento di Pratiche Linguistiche e Analisi di Testi) dell’Università di Bari e diretta da Augusto Ponzio e Claude Gandelmann fino alla scomparsa di quest’ultimo, avvenuta nel 1995. Pubblicata dall’Editore Angelo Longo di Ravenna fino al 1997, dopo una fugace collaborazione con l’Editore Piero Manni di Lecce con cui è uscito nel 1998 il n. 1 della nuova serie, è ora affidata alle Edizioni Meltemi di Roma sotto la direzione di A. Ponzio.
  Semiotica, filosofia, arte, letteratura, come recita il sottotitolo, costituiscono gli ambiti di interesse all’interno dei quali si articolano e si organizzano i vari fascicoli tematici in una prospettiva transdisciplinare. Non si tratta infatti della proiezione sul tema scelto di diversi punti di vista maturati in discipline diverse con metodi diversi che trovano un loro punto comune nei contenuti, secondo il più ovvio e accettato senso della multi o pluridisciplinarità in un percorso che unifica ciò che è separato e nato per altre esigenze. La transdisciplinarità che anima l’organizzazione delle varie monografie si basa al contrario sulla stessa metodica manifestata in contenuti diversi. Si tratta della metodica del segno con la sua costitutiva e intrinseca apertura ad “altro”: il segno come costrutto che lascia delle ombre, dei residui che molto spesso lo contraddicono o dicono più di quanto esso non dica direttamente, prolungando il processo segnico. La semiosi e la vita dei segni dunque come dialogo per l’impossibilità della chiusura, pena la fine della semiosi stessa, mentre la semiotica si configura come teoria del dialogo.
  L’identità del segno non è fissa, richiede invece il suo continuo spostamento, sì che essa è metastabile, è pratica e non astratta: la semiosi è traduzione; il segno sussiste solo nel rapporto tra segni. La traduzione, per altro verso, non è più confinata nella linguistica del verbale ma entra nell’orizzonte più ampio della semiotica quale teoria dei segni verbali e non verbali. Il paradosso della traduzione consiste nel fatto che il testo tradotto deve restare se stesso mentre diventa un altro, deve essere al contempo identico e diverso. Si vedano al riguardo i numeri 2 (1999-2000), 3 (2000) e 4 (2001) della nuova serie dal titolo, rispettivamente, La traduzione, Tra segni e Lo stesso altro.
    Il lavoro traduttivo/interpretativo porta con sé qualcos’altro all’insaputa del lavoratore-interprete-traduttore. Questo “altro” del lavoro è opera, come dice Lévinas; è produzione dell’in-utile che sfugge al lavoro stesso facendone esplodere l’identità: è l’al di là dell’essere del lavoro; è la materia del segno e dell’interpretazione, del valore di scambio (la merce) che si esplica nello scambio non mercantile, nel dono, cui è dedicato il volume n. 8 del 2004.
   L’opera è il movimento verso l’altro che non ritorna al medesimo; è relazione asimmetrica subìta che dice di un intrico etico, di uno spossessamento del Soggetto. C’è qui la questione della materia dell’essere, dell’ombra della luce, ossia di una semiosi che è prima e dentro l’Io cosciente: una semiosi avant le signe o scrittura. Sono argomenti affrontati nei volumi 1 (1990): Il senso e l’opera; 3 (1992): Il valore; 5 (1994): Materia; 8 (1997): Luce.  
   Questa semiotica della scrittura, che si configura come completamento, o, diremmo quasi, maturazione della semiotica dell’interpretazione, è una semiotica dell’alterità che ha il suo presupposto nelle filosofie dell’alterità e che – a nostro avviso – trova il suo supporto storico e sociale nei problemi legati alla rottura del 1989, al cosiddetto nuovo ordine mondiale, alle migrazioni, alla globalizzazione, al ritorno della guerra come soluzione delle controversie internazionali.
  L’onto-logica occidentale si autointerpreta come assoluta fin dalle sue origini, avendo relegato fuori di sé l’apeiron (l’infinito), ossia ciò che non ha modus e sfugge alla norma imposta da qualcuno. L’infinito in quanto altro è visto come materia signanda, amorfa, che attende di essere modellata, civilizzata, democratizzata, secondo una “reductio ad unum” delle forme di vita, delle risorse naturali, dei valori, dell’economia, della politica. E’ il sacrificio dell’altro come riaffermazione dell’identità (si veda il n. 2, 1991, Arte e sacrificio), che ha in sé l’extrema ratio della guerra quale modellatrice del mondo. Un Mondo di guerra, come dice il titolo del volume n. 9 (2005); un mondo che è il risultato della guerra, dove – nelle parole di Ponzio (ivi, p. 7) -  “Non c’è Territorio nazionale, Stato, Comunità, Unione di Stati che non sia risultato di guerra. […] Questo è il mondo della guerra. Ogni pace è pace di guerra, ottenuta con la guerra. […] Mantenere la pace è mantenere lo stato delle cose ottenuto con la guerra. E, se necessario, mantenere la pace è fare la guerra”.
   Per la semiotica dell’alterità o della materia invece il confine non è un limite invalicabile e separante, quanto piuttosto luogo di contatto, di inclusione, di esposizione ad altri.
 L’invisibilità dell’altro, la sua innominabilità o il suo essere nominato solo in negativo sono motivo di scandalo quando la materialità del suo non essere spunta d’improvviso dal mare a bordo di un gommone e viene a piazzarsi nel Mondo dell’Umanità vera e universale. Le migrazioni (si veda l’omonimo volume 4 del 1993), infatti, hanno rotto la beata visione dello sguardo autoreferenziale e narcisistico dell’Occidente. Esse sono smodate, oltre il modus; non sono neppure una momentanea rottura (antitesi) di un tessuto (un testo; tesi) che dopo un iniziale sbandamento riprende il controllo di sé e della situazione (sintesi).
 Le migrazioni sottraggono territorio, spazio culturale (talvolta spazio biologico) e di senso, trasfigurano la semiosi.
  Il migrante costringe a rispondere, a prendere posizione, impone un dialogo, provoca un nuovo senso. La sua apparizione induce a fare i conti con la propria anteriore coscienza filosofica e sociale, con la propria etica anteriore; fa emergere capacità nascoste: può alimentare aggressività (tentativi di recupero dell’identità minacciata, di difesa del proprio diritto al lavoro con conseguenti lotte tra poveri o rigurgiti razzisti ed etico-nazionalisti), oppure indurre pensosità e accoglienza.
  Il migrante non fa la tradizionale lotta di classe al capitalismo; la sua minaccia sta piuttosto nella domanda di accoglienza: una domanda esorbitante che non è ammessa e non può essere soddisfatta, che è al contempo “un’interrogazione, una richiesta di giustificazione a chi occupa un posto nello sviluppo, non semplicemente un posto di lavoro, a chi vi ha collocazione e ha creduto finora di non doverne rendere conto” (Ponzio, in Migrazioni, p. 11).
 Il mondo/il mare è il titolo del volume n. 7 (1996) che esprime la contrapposizione tra una totalità identificante e circoscrivente, risultato di una narrazione o della costruzione di un Soggetto e di una Ontologia: il mondo, e un fuori: il mare, associato con l’ignoto, con la possibilità di deriva, il viaggio senza ritorno, l’alterità. La questione è se il propriamente umano non fuoriesca dal mondo e non appartenga invece all’altrimenti dell’essere del mondo, ad una opacità che la luce o l’essere del mondo non può cogliere; non appartenga cioè a una luce nera, nell’accezione di una “negritudine” intesa più che come colore della pelle come un guardare dalla periferia. Ci sembra questo il senso di Nero, il n. 1 (1998) della nuova serie, ristampato con modifiche come n. 6 (2003). Si tratta di uno sguardo smisurato in cui il mondo non coincide con se stesso: lo sguardo di un’esistenza umana più grande ma anche di un’esistenza più grande di quella umana nel suo complesso. E’ lo spazio della materia vivente, della vita in tutte le sue forme.
 In questo sguardo globale la semiotica recupera la sua fase semeiotica risalente all’antica medicina; un recupero teorico, non prettamente storiografico, per cui possiamo dire che la semiotica recupera la sua costitutiva dimensione semeiotica che consiste nel far star bene la vita. Il medico si prende cura della persona, il che ha un senso etico e non solo conoscitivo e professionale. La semiotica guadagna così la dimensione etica diventando semioetica. C’è un nesso intrinseco fra etica e semiotica che pone l’ethos come fattore costitutivo della semiosi e della semiotica. La semioetica, in altri termini, è lo sviluppo in senso semeiotico della semiotica; essa infatti non si occupa dell’etica come settore a se stante, ma evidenzia l’esposizione senza alibi del segno all’ethos, mostra l’illusoria pretesa della differenza indifferente.
  La semiotica si fa allora carico della vita nel suo significato estensivo, che nell’odierno modello economico vincente è molto spesso ritenuta d’ostacolo alla realizzazione del profitto quando non è inserita nel processo di mercificazione crescente. Vita da medicalizzare, vita come investimento economico, ma soprattutto vita in una visione antropocentrica, fino all’estrema conseguenza della distruzione degli altri organismi viventi.
   La semiotica che si prende cura della vita, o meglio la semiotica della vita (sul tema della vita è incentrato il volume n. 5, 2002) esce invece dall’antropocentrismo e tematizza la non indifferenza per le forme di vita non umane. I segni umani non sono che una parte dell’intera semiosi (vita) del pianeta dalla quale sono inevitabilmente dipendenti.
  La vita è attività, lavoro, “opera”, dove produzione materiale e immateriale sono intimamente connesse, come già aveva fatto vedere Ferruccio Rossi-Landi nel suo libro del 1968, Il linguaggio come lavoro come mercato. Al Lavoro immateriale è dedicato il volume 7 (2003-2004). Si tratta degli atti del Convegno internazionale sul semiotico italiano svoltosi a Bari dal 14 al 16 novembre 2002. La teoria del linguaggio come lavoro anticipa con lungimiranza problematiche della fase attuale della produzione in cui la comunicazione è fattore costitutivo. Ciò che nella visione rossilandiana è il “lavoro linguistico” oggi si chiana “risorsa immateriale”, “capitale immateriale”, “investimento immateriale” e costituisce un fattore decisivo dello sviluppo, della competitività e dell’occupazione nella “knowledge society”. L’unità di lavoro e artefatti materiali e di lavoro e artefatti linguistici sta sotto i nostri occhi nell’unità di hardware e software del computer, dove risulta evidente la priorità del lavoro semiotico, del “lavoro immateriale”.



 
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